martedì 19 maggio 2015

Metafore ossessive

A suo tempo lessi con grande interesse il libro di Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale. Un testo molto ricco di elaborazioni ispirate al pensiero di Freud, analitico e rigoroso. Ma che al fondo trasmette un'idea semplice: l'opera letteraria scaturisce dal fondo limaccioso del nostro inconscio, e solo dopo passa al vaglio della coscienza che le conferisce una struttura linguistica e una forma definita.
ma che in questo passaggio trascina con sé delle tracce insopprimibili di quello che si nasconde nel profondo, e anzi vi si aggrappa come ancore di salvezza della propria identità.
Un'idea che tradotta in termini più grezzi significa: ogni scrittore non fa che riscrivere ossessivamente lo stesso libro per tutta la vita, spesso senza che lui stesso i suoi lettori ne abbiano consapevolezza.
Ci deve essere del vero, se in fondo Dostoevskij non fa che rielaborare l'assurdità del male che colpisce gli innocenti, Tolstoj il conflitto tra il potere e il ruolo sociale e i sentimenti, Mann la relazione vertiginosa tra la malattia e l'arte, Nietzsche la sfida destinata alla sconfitta dell'uomo con Dio, in una eterna e circolare ripetizione della lotta di Giacobbe con l'angelo, tanto per citare qualche esempio.
E anche se non fosse vero non ha alcuna importanza. E' appunto una bellissima metafora, anche un po' ossessiva.


sabato 16 maggio 2015

Nessuno avverta l'assassino!

Ho già toccato questo argomento, ma mi piace tornarci sopra perché si tratta di un tema centrale nella filosofia della composizione. Il problema della credibilità di ciò che si scrive, soprattutto in un'opera di narrativa congetturale.
In genere la giustificazione che si appone a certi arditi funambolismi è il richiamo all'antica formula di Coleridge, quella che chiama in causa la suspension of disbelief, una sorta di patto tacito che il lettore stringe con il narratore ancora fuori della porta della libreria: so che quello che mi dirai non è vero, ma ti compro il libro egualmente proprio perché voglio essere trasportato in un sogno e accettarlo come vero è il prezzo che devo pagare -oltre a quello di copertina - per tale goduria.
la spiegazione è suggestiva, ma va inquadrata in una cornice necessariamente più ampia. Strettamente intesa essa non spiega perché i suoi effetti sono così differenti a seconda dei testi presi in esame, a prescindere dal loro maggiore o minore scarto dal senso comune a dall'esperienza empirica.
Perché insomma siamo disposti a sottoscrivere questo contratto con Aladino e la sua lampada, mentre proviamo molta più difficoltà a fare lo stesso con un romanzetto di scadente fattura, anche se magari molto più vicino alla realtà?
Perché a mio avviso l'accordo per funzionare deve coinvolgere non due ma tre attori: lo scrittore, il lettore e i personaggi della vicenda. In altre parole, perché scatti la magia della narrazione non basta la benevolenza del lettore nei confronti di chi scrive, ma occorre che essa si estenda anche allo spazio della narrazione e ai suoi attori. Occorre in altri termini che anche i personaggi sospendano la propria incredulità e si convincano di essere davvero quello che lo scrittore ha immaginato per loro. E che un mago creda fino in fondo di avere davvero poteri magici, una bella donna di essere davvero stupenda e irresistibile, un villain di essere il più terribile dei malvagi.
E dunque nessuno avverta l'assassino che non è affatto una terribile incarnazione del Male, ma soltanto una risibile crepa nella fronte marmorea dell'Essere, che appena qualche pagina dopo verrà scoperta e catturata.
Che nessuno lo avverta, per carità, se vogliamo che creda fino all'ultima riga nella sua missione, e lo faccia credere anche a noi.